Tutto ciò che gira attorno al “viaggio” o al “viaggiare” ha una certa forza ipnotica che volente o nolente richiama l attenzione di chiunque. Chi, all’ ascoltare tal parola, non prova nelle proprie viscere alcunchè di diverso o non immagina qualcosa di attraente, fa parte della famiglia degli anellidi. (A te lettore che ti inorgoglisci di far parte di una “famiglia” pensando a una possibile scoperta di appartenenza a un alto rango aristocratico e fregandotene della vena romanzesca dell’ esplorare ti consiglio di non andare su wikipedia )
C’ è chi viaggia per ostentazione sociale, chi invece lascia il proprio nido per alcuni giorni solo per mettere una piccola parentesi tra le righe e le rughe della propria noia quotidiana, chi lo fa per amor proprio. L’ ultima categoria è la più interessante. Sono coloro che vedono nel viaggio un certo qual meccanismo che alla fine dei conti non fa che arricchire se stessi, lasciando appunto i suddetti conti in rosso. Non ci vuole dunque una massiccia dose di amor proprio per fare qualcosa che arricchisce te stesso ma impoverisce le tue stesse finanze? Il più delle volte tale arricchimento ha solo la durata di pochi giorni e come frutto, memorie di dispositivi elettronici diminuite a suon di foto.
Ma spolpando l argomento a colpi di riflessioni in solitaria sono arrivato alla conclusione che una cosa sola sia la fonte dalla quale trabocca tutta questa energia che porta a intraprendere un viaggio, essa è la Diversità. È la diversità che attrae flotte di persone in luoghi lontani dalla propria casa. C è chi lo fa con più coraggio, c’ è chi lo fa con più professionalità, o chi lo fa con più insensatezza ma è indubbio che chi va all’ estero alla fine non fa altro che vedere, toccare, ascoltare, pensare, parlare, sentire, mangiare, scopare, odorare “qualcosa” di diverso. Per quello penso che il viaggio deve per forza provocare una reazione in ciascun essere che umano si voglia definire… spesso il diverso provoca paura e la paura scalcia nella pancia e nelle viscere di ogni uomo. Non per niente spesso si fa proprio quello di cui si ha più timore (o proibizione) ma questa è un’altra storia.
La cosa più curiosa della questione (e che a pensarci bene è proprio paradossale) è che si, ci si meraviglia in terra straniera se si mangia con le mani o le bacchette, se si caga seduti, accovacciati, all’ impiedi, meccanizzati o profumati, ma ci si meraviglia ancora di più se in terre sconosciute si trova qualcosa di uguale alla terra Natale.
Quando i confini dei miei spostamenti si fermavano a Scilla e Cariddi, Capo passero e Marsala, mi godevo le giornate di vacanza andando a fare grigliate tra le verdi campagne. Una volta, era domenica, e di prima mattina ci misimo in viaggio. Guidavo quando mi resi conto che alla lista della spese mancava qualche ingrediente fondamentale per la buona riuscita della sfida tra i giovani stomaci. Cosi mi fermai nella prima bottega utile in via Oreto. La via Oreto è una via che prende nome dal fiume sopravvissuto alla modernizzazione urbana e che collega il centro di Palermo con l autostrada. Essa è povera di bellezze ma ricca di macchine e di palazzi senza animo. Cosi come senza estetica era la bottega di alimentari, oggetto della sosta. Faccio le mie compere e, una volta sganciato il contante, noto con devota simpatia che la cassiera, palermitana di 60 anni con occhiali anni 70 con più fianchi che altro, si fa il segno della croce. Che figata e dolcezza vedere il sacro accoppiato per quello che oggi è considerato profano ovvero il commercio. Non si poteva non apprezzare l’ abbondanza di speranza che quel segno di croce portava con sè. Quella sacralità in un posto dove il prosciutto era di ultima qualità, mi fece intuire le ristrettezze in cui versavano i proprietari che per risollevare le sorti della propria attività chiamavano in causa anche la loro divinità. Da ottuso borghese benestante liquidai l’ evento come folkloristico e con superficialità.
Ho poi assistito a un simile “gioco delle parti” tra sacro e profano anche in Turchia, era la seconda volta ma per la prima volta non ho disprezzato l evento ma l ho onorato.
Mi trovo ad Antalya, città al sud della nazione, con spiccata crescita economica e quindi aumento della popolazione. Come da letteratura, la città ha affrontato una espansione geografica notevole così da rendere la propria periferia lontana 30 minuti di autobus dal legnoso centro antico e ottomano. Le periferie hanno prezzi più bassi e la mia casa è in periferia. Dato che la vita ludica dei giovani turchi risiede nel vecchio cuore cittadino, per divertirmi devo accollarmi o 30 minuti di autobus o 30 lire turche di tassista, che son tanti per il tenore di vita turco. Una notte stanco per il lavoro, mi accollo i 10 euro (ovvero le 30 lire). Essendo ai margini della città è difficile incontrare un taxi, ma quella notte, ne vedo uno in lontananza. Vagava timido come se non conoscesse le vie o cercasse qualcosa. Ero ancora indeciso se prenderlo o meno, dato che ero ancora alla fermata ma il mio sguardo incontra quello del guidatore che avendo capito la mia indecisione si ferma. Io mi faccio convincere alla vista della comodità dei bei sedili di pelle nera e monto sulla vettura a pagamento: viaggio veloce e scontato alla fin del quale al momento di sganciare il contante la autista quindi cassiere, mi fa un cenno di ringraziamento e mi dice: ”bereketversi!”.
Che il turco sia una lingua difficile è ben noto, e tale consapevolezza mi avrebbe portato a lasciar scorrere il significato di tal parole se questo non fosse stato accompagnato da un movimento molto strano della mano che teneva le banconota. In pratica il signore si è fatto scivolare il pezzo di carta consunto ma pieno di lire turche prima sulla guancia destra e poi su quella sinistra. Io ovviamente ero piacevolmente stordito e rincoglionito da questa impenetrabile manifestazione di umanità in un taxi tanto misero. Il mio cervello era vuoto. Godevo di questa vuotezza che se continua nel tempo ti fa essere stupido ma se è momentanea e conseguente a eventi mai visti non è altro che un segno dell’ apprendimento in corso.
Cosa voleva significare mai? Non perdo tempo a indagare e scopro con molto piacere che il termine è un auspicio. Un magnifico auspicio. È una parola di antica memoria e usanza che la mia giovane collega di 28 anni ha sentito nella sua vita (parole sue) 2 massimo 3 volte. Essa non può essere tradotta ma viene professata da tutti i turchi o (consideratane l antichità) gli ottomani, proprietari di piccole botteghe o esercizi commerciali, che, non appena ricevevano i primi contanti della mattina (o della sera considerato il ruolo del taxista) la pronunciavano. Ripetere questa parola, mi viene spiegato, è una forma di ringraziamento/richiesta ad Allah per i soldi ricevuti e perché ne arrivino degli altri. Chi la dice, per come la dice, si trasforma in un precipitato della propria anima. La sacralità di un momento cosi banale esplode e si diffonde.
In un primo momento sono felice perché sono inciampato in quegli eventi sconosciuti ai più e ai redattori di guide turistiche e che danno il gusto di vivere all’ estero. In un secondo momento sono stupito nel ritrovare come questa diversità ricercata da chi viaggia alla fine si riduce in uguaglianza: riconoscere come il taxista di Antalya e la bottegaia di Palermo in fin dei conti non avessero fatto nient altro che la stessa cosa. Avvicinare l estremo della banalità (i soldi) con l estremo della sacralità (Dio), per la proprio sopravvivenza, per la propria vita, come in Italia così in Turchia (e chissà in quale altro posto del mondo).
Viaggiare è bello per scoprire il diverso, ma se fra le pieghe del diverso scorgi l’ uguale… quello si che è figo!